Il più imponente sequestro della stagione, e in assoluto della storia sarda, è scattato ad agosto quando ancora le piantine di cannabis erano basse. Ai piedi del monte Pino, tra Olbia e Telti, sono stati scoperti 4mila ceppi di cannabis. Presto sarebbero diventati l’ennesima maxi piantagione illegale di marijuana dell’entroterra. Il periodo più fecondo, quello della fioritura e del raccolto, è l’estate. Che, infatti, è il tempo dei sequestri. E della “osservazione dal cielo”.
Gli strumenti che i nuclei antidroga delle forze dell’ordine utilizzano più spesso per individuare le coltivazioni sono infatti i droni e gli elicotteri. Distinguerle dall’alto non è difficilissimo, anche quando sono circondate da altra vegetazione: il loro verde è brillante, quello circostante è più cupo. A volte sono delimitate da lembi di terra secca, e allora sono riconoscibili a colpo d‘occhio. Oltre al colore, è d’aiuto la loro particolare struttura: piante ordinate in filari, innaffiate da metri e metri di tubi che portano l’acqua.
Una volta localizzata la coltivazione, si procede all’intervento via terra. Quasi sempre lungo sentieri invisibili rubati alla boscaglia e fino a quel momento noti solo ai titolari della piantagione. Proprio come, ai tempi del banditismo, altri percorsi erano conosciuti solo dai custodi degli ostaggi e dai loro complici. La marijuana ha rivoluzionato l’organizzazione delle attività criminali nelle zone interne dell’Isola. Dove pascolavano le pecore e s’arrampicavano le capre, cresce la materia prima per la “canne”. Un mix di antico e moderno che richiama, con un sorriso amaro, il titolo di uno dei più celebri romanzi di Grazia Deledda. Già perché le nostre “canne” crescono soprattutto nei luoghi che la scrittrice ha raccontato. Sono proprio “canne al vento”.
Se negli anni Novanta la Commissione regionale d’inchiesta sulla criminalità aveva escluso la presenza della droga e ribadito che il reato tipico continuava a essere il sequestro di persona a scopo di estorsione, venticinque anni dopo le zone interne sono diventate prima piazze di consumo, poi di produzione di canapa indiana, cannabis indica, cioè della materia prima dalle cui infiorescenze si produce la marijuana e anche, con una lavorazione più complessa, hashish. Già nel 2010 la Commissione nazionale antimafia, nella relazione annuale al Parlamento, aveva messo nero su bianco che il mercato della droga era ormai diffuso da Olbia a Cagliari, senza nessuna zona ‘pulita’. E nell’ultima relazione annuale del 2015 della Direzione nazionale antimafia si legge: “La criminalità organizzata in Sardegna ruota intorno al grande traffico di droga (soprattutto cocaina), mentre rimane in costante crescita la coltivazione illegale di marijuana”.
I numeri rivelano una realtà dinamica. La Sardegna è terra di coltura, sia nelle serre casalinghe, urbane, sia soprattutto in aperta campagna – in gergo outdoor – per via del clima favorevole. Dal 2012 è al quinto posto nella classifica per regioni delle piantagioni illegali di marijuana. Davanti ci sono il Lazio e le regioni meridionali dove il traffico di stupefacenti è in mano alla criminalità organizzata: Campania, Sicilia e Calabria. Ma se si confronta il numero delle piante col numero degli abitanti – appena un milione e seicentomila, contro i cinque milioni, per esempio, della Sicilia – la Sardegna arriva alla vetta della classifica. E alcune aree, come il Nuorese e l’Ogliastra, sono allo stesso livello del Reggino, del Palermitano e Siracusano.
Una nuova geografia criminale. Alle piantagioni, e ai sequestri, è dedicato un capitolo del quarto rapporto di ricerca dell’Università di Sassari (a cura di Antonietta Mazzette) sulla criminalità nella Regione. Sara Spanu e Daniele Pulino, hanno analizzato l’attività repressiva dal 2010 al 2014 rilevando che in quei quattro anni ci sono stati 516 sequestri per un totale di 30.479 piante. La tendenza è la diminuzione del numero dei sequestri accompagnata però dall’aumento del numero delle piante individuate e distrutte. In sostanza, le piantagioni sono sempre più grandi, organizzate e protette. A volte con vigilanti armati, sistemi di videosorveglianza e di allarme. Il monitoraggio è andato avanti anche nel 2015 con risultati sorprendenti: «Il numero di piante confiscate è più che raddoppiato rispetto all’anno precedente – spiega Spano – nel 2014 ci sono stati 113 sequestri e 7.504 piante, nel 2015 a sequestri quasi pari, 107, le piante confiscate sono 16.349». Perché questa impennata? «C’è un consolidamento dell’uso del territorio per attività illegali, in particolare per la produzione di droga – spiega ancora Spanu – un salto, una tendenza proprio nelle stesse aree in cui spariscono le tradizionali attività agropastorali».
Nella cartina della Sardegna, la concentrazione delle maxi piantagioni individua una nuova geografia della criminalità. L’area più coinvolta è il segmento centrale tra la costa occidentale e quella orientale, con diramazioni verso il nord: dal Marghine al Goceano e all’Ogliastra. Dal 2010 al 2014 le piante sequestrate nella sola provincia di Nuoro sono state il 30 per cento del totale.
Non è solo questione di umidità, luce e terra buona: “I dati mostrano la presenza dei sequestri più consistenti nei territori che appartengono alla “Zona Centro Orientale” – si legge nel rapporto – ovvero all’area a rischio criminalità violenta individuata dalle precedenti ricerche”. I luoghi sono scelti con cura: “occupati” all’insaputa dei proprietari che probabilmente vivono lontano e hanno dimenticato quelle proprietà ereditate, tutte informazioni facilmente reperibili nelle piccole comunità.
In altri casi per mimetizzare le piantagioni si scelgono aree super controllate: due sono state realizzate addirittura all’interno del poligono di Quirra (150 piante più altre 200), con tanto di cisterna e impianto a goccia. Nel poligono militare della costa orientale l’accesso è interdetto, ma possibile dalla spiaggia di Murtas. E c’è chi usa direttamente i terreni comunali e del demanio o sceglie un parco regionale, come l’oasi di Tepilora, a Bitti, nel Nuorese.
L’Ogliastra come la Colombia. La classifica dei paesi dove sono stati effettuati i sequestri più importanti individua un’ulteriore dimensione geografica e sociale. Le vaste aree coltivate a cannabis si trovano nei centri con poche migliaia di abitanti, soprattutto nei paesi che ne hanno meno di 4mila. Ai primi cinque posti Oliena (il più popoloso, con settemila abitanti) a seguire Bortigali, Bono, Bitti e Ilbono, tutti attorno ai 3mila. Spicca il caso di Bortigali, un vero record: 1.670 piante concentrate in unica piantagione, 1.417 iscritti all’anagrafe, ai piedi della montagna Santu Padre gli steli di marijuana superano il numero di residenti. Lì dove lo spopolamento è materia di convegni si registrano i casi di cronaca più spettacolari che rivelano organizzazioni modello narcos e un sapere tecnico da piccoli Archimede. Sistemi di irrigazione fai-da-te studiati, e realizzati nei minimi dettagli: con avvio a distanza programmato, vasche di accumulo dell’acqua, tubi interrati che attingono a pozzi di altri terreni.
Tra Ilbono e Loceri, in Ogliastra, nel 2013 – attraverso l’evidente differenza cromatica rilevata con l’osservazione dall’alto – è stato scoperto un vero e proprio bosco di marijuana: più di mille piantine protette da vigilanti armati, e controllate a vista dalle tre diverse postazioni tra loro comunicanti poste in altura. La base era dotata di fucili, munizioni e tutto il necessario per il comfort dei custodi stanziali: doccia, giacigli, dispensa spartana, detersivo e fili per il bucato. Una base autonoma anche dal punto di vista energetico: grazie a fili lunghi chilometri collegati ai pali della rete elettrica più batterie d’auto e pannelli fotovoltaici.
Una struttura sofisticata e inedita tanto da far dichiarare agli inquirenti della Questura di Nuoro di esser di fronte a “caratteristiche di armamento e organizzazione non note fino a ora in Ogliastra”. Una piantagione, dunque, realizzata “in un contesto criminale di elevata professionalità e allarmante pericolosità”. Il valore stimato della produzione se venduta al dettaglio è di un milione di euro. Ma un solo arresto. Eppure si sa per certo che dietro piantagioni simili ci sono numerosi soggetti organizzati, in grado di muoversi anche fisicamente con agilità nel territorio, spesso aspro, dotati di buone capacità nell’utilizzo delle armi. Oltre alla gestione di una rete di contatti. Ma, se l’organizzazione è sofisticata e complessa, gli investimenti sono modesti: la cannabis del centro Sardegna ha bisogno solo d’acqua, di prassi rubata, il sole risplende gratis. Nelle serre di città, covi tecnologici, servono invece le super lampade, o fari a led, con alti consumi. Da sud a nord dell’Isola gli allacci abusivi svelano cantine con i vasi, bunker a cui si accede da botole segrete.
La marijuana a chilometro zero: business familiare. Maschio e giovane, questo è il profilo del “coltivatore diretto” di cannabis sarda. Rare le donne, meno del sette per cento: fidanzate, mogli, conviventi o sorelle. Gli arrestati, alcuni in flagranza, hanno tra i 19 e i 46 anni (per il 77 per cento) e sono soprattutto disoccupati, circa la metà, o impegnati in campagna in attività agropastorali, un terzo, il resto operai. L’indotto coinvolge piccoli gruppi di parenti e o amici, ma questo non impedisce che le varie attività siano regolate da una gerarchia precisa dei ruoli.
Non è ben chiaro, invece, se nell’Isola ci siano solo i “manovali” guidati da menti esterne o se, invece, il business sia diventato del tutto locale. La differenza è tra una paghetta, una sorta di retribuzione da dipendente, e la divisione degli utili tra soci. Di certo, secondo gli studiosi dell’Università di Sassari: “In questo quadro si assiste allo sdoganamento della produzione di cannabis in loco come possibilità di facile guadagno, semplificata anche dalle accresciute possibilità di accesso alle nuove tecnologie che consentono di acquisire informazioni e strumenti tecnici di coltivazione”.
Facile appunto il reperimento delle “materie prime”. I semi, anche di buona qualità, si acquistano via Internet a prezzi contenuti (5-10 euro a seme). Per la trasformazione servono però laboratori e addetti all’essiccamento, trasporto e preparazione dell’erba da fumare, unico prodotto finito a chilometro zero. L’hashish – che come si è detto richiede altre procedure – continua ad arrivare da oltre mare. Le fasi finali della “catena di montaggio” sono le meno note. Scrivono i ricercatori: “Nel caso di coltivazioni di dimensioni notevoli, spesso gli autori sono rimasti impuniti o è stato individuato un solo autore. In questi casi, infatti, è sicuramente necessaria un’attività organizzativa atta a stoccare, confezionare, e trasportare”. L’anno scorso, a Laerru, nel Sassarese, in un casolare è stato trovato uno stock di 175 chili di marijuana essiccata. Rami appesi all’ingiù e foglie sminuzzate sul tavolo. È uno dei pochi casi di laboratorio di post produzione: «Raramente si trovano a ridosso del campo di cannabis – spiega ancora Spanu – e si presume che sia quindi necessario spostare il materiale, piuttosto ingombrante. E infatti a volte la distanza dalle strade ad alto scorrimento, come l’Orientale sarda, è minima».
Un isolamento solo apparente, quindi: le piantagioni più vaste sono accessibili da più strade, probabili vie di fuga e trasporto verso le direttrici di spaccio. Il mercato sardo ha due direzioni: le zone urbane (Cagliaritano o Sassarese) e quello della Gallura, con la calamita della Costa Smeralda. Primi poli del consumo di stupefacenti, con richieste che s’impennano con gli arrivi estivi. Poi c’è la rotta extra isolana. Ai consumatori l’erba da fumare, in piazze cittadine considerate medio-alte, costa tra gli 8 e i 10 euro a grammo.
La piantina nello sgabuzzino per “uso personale”. I mini sequestri casalinghi, quelli delle piantine in balcone o nel sottotetto, sono meno frequenti. Tuttavia l’Isola detiene anche in questo campo un primato: la prima sentenza di assoluzione per uso personale. È stata pronunciata dalla Corte di Appello di Cagliari nel 2014, due anni prima dell’arrivo della proposta di legalizzazione approdata a luglio a Montecitorio. Il caso è quello di un quarantenne, difeso dall’avvocato Gian Battista Gallus. Nelle motivazioni si legge: “è obbligatorio escludere che dalla coltivazione, ben lontana dal concetto di piantagione redditizia, potesse derivare in concreto un reale rischio di implemento del mercato clandestino della marijuana”. Sette anni prima, agosto 2007, l’imputato era stato arrestato perché – nel corso di una perquisizione – in uno sgabuzzino della sua abitazione erano state trovate due piante di cannabis in due comuni vasi di plastica, alte un metro e sessanta e un metro e ottanta. Attorno nessun kit speciale: né fari, né fertilizzanti, né bilancini. L’uomo non aveva mai tagliato le foglie, e l’intento era evidentemente “l’uso personale”. Ma è stato determinante per la sentenza di assoluzione anche un dato chimico, la concentrazione del principio attivo, “in quantità ridotta”. D’altra parte, l’alta qualità non è scontata neppure per le coltivazioni avviate in campo aperto. Ogni specie fuori dal suo contesto naturale d’origine – come spiega il professor Mauro Ballero, professore di Biologia farmaceutica all’Università di Cagliari – sviluppa principi metabolici diversi.
Lo scenario: cannabis sarda per curare e per bonificare i veleni. L’Isola è stata in parte esclusa dai progetti di utilizzo dei cannabinoidi per curare malattie come tumori, Sla e sclerosi multipla. Questi farmaci sono già legali, ma in Sardegna manca un protocollo attuativo. Eppure sono stati fatti molti passi avanti, sia a livello locale sia nazionale. Da un anno la “marijuana di Stato” è una realtà: si coltiva in serra, a Firenze, nello stabilimento chimico farmaceutico militare dell’Esercito. Una piantagione di 250 metri quadri, in ambiente asettico per ottenere un’elevata e precisa concentrazione di principio attivo. Da lì partono poi i fiori essiccati verso le farmacie di tutta Italia.
Si è già alla ricerca di nuovi spazi, e chissà che non si prendano in considerazione quelli sardi, all’aria aperta. Dove prosperano ora le coltivazioni illegali di marijuana, ma anche quelle “in regola” con un basso principio attivo (allo 0,2% secondo le prescrizioni Ue): la canapa per uso industriale (tessile, quello principale e storico) sta rianimando ettari di campi abbandonati e dando nuove opportunità di lavoro ai giovani coltivatori. E c’è anche un progetto sperimentale della Regione Sardegna: bonificare i terreni inquinati con immense estensioni di canapa (quella legale) in grado di assorbire i veleni delle tante fabbriche dismesse: dal Sulcis al triangolo di Porto Torres.