La Sardegna di oggi per la Memoria di domani
 

L’ambasciatrice e il pecorino

C’è una storia curiosa, che potrebbe anche sembrare una favola, che mette insieme gli Usa, la loro ambasciatrice a Roma, Clara Boothe Luce, una cena algherese ed i formaggi pecorini made in Sardinia. Quel che qui si racconta accadde nella tarda estate del 1956 (o, forse, del ’55), nel corso di una visita ad Alghero, della signora Luce. Ma, cambiati solo gli attori, potrebbe anche essere accaduto ieri. 

La location di allora fu la bella villa Las Tronas, residenza dei conti di Sant’Elia, e l’occasione un incontro informale, a tavola, con esponenti locali della politica e del giornalismo, fra cui – pare di ricordare – gli onorevoli Salvatore Stara, Nino Campus e Giuseppe Masia fra i primi e, ancora, Aldo Cesaraccio, Filippo Canu, Roberto Stefanelli, oltre a chi scrive, fra i secondi. Fu una serata assai piacevole, allietata dalle musiche sardesche di Luigi Canepa e di Ennio Porrino, ma resa ancora più allettante e gustosa per via di un ricco assortimento di prelibatezze locali.

Si parlò di una varietà d’argomenti. In particolare la signora Luce si dilungò su quel “pericolo Stalin”, che per lei era un’ossessione, e da cui intendeva tenere distante l’Italia.  Poi, sul finale, accanto alle bottiglie di Anghelu Ruju, il cannonau passito delle cantine Sella, comparve un gran piatto di formaggi pecorini. Fu qui che la signora Luce rivelò che uno dei primi incontri con il mondo italiano si era compiuto proprio per il tramite di quel pecorino gustoso e piccante che a New York è conosciuto come il formaggio dei wopos, come venivano spregiativamente chiamati gli immigrati irregolari (che oggi chiameremmo sans-papiers) dei paesi latini. E che proprio di quello stesso pecorino dovette interessarsi nel 1953, appena giunta a Roma dopo essere stata scelta come ambasciatrice dal presidente Eisenhower che in quel modo aveva contraccambiato il sostegno elettorale ricevuto da suo marito, Henry Luce, editore della più importante catena di periodici degli Usa.

Raccontò d’aver ricevuto, in particolare da autorevoli sardi come Segni e Mastino, delle forti pressioni per favorire l’export di maggiori quantitativi di roman cheese, e più sostanziose agevolazioni negli accordi doganali: per la Sardegna – le dissero – quei formaggi sono l’indispensabile daily bread, il pane quotidiano, per sostenerne l’economia. La cosa l’aveva un po’ sorpresa perché si trattava di un prodotto molto anonimo, di bassa qualità e di basso prezzo. Dalle parti della Fifth Avenue o di Wall Street spopolavano i Roquefort ed i Perail, pecorini francesi con prezzi che, all’etto, battevano quel “romano” cinque a uno.

«Ma non avete da mandarci – domandò ai commensali politici – dei formaggi da tavola alla francese che certamente darebbero alla vostra economia qualcosa di più sostanzioso e nutriente del solo pane?» La domanda spiazzò. Le risposte dei nostri governanti furono assai confuse. Rimediò per tutti il giornalista Cesaraccio che spiegò all’illustre ospite come i sardi fossero da sempre degli incalliti conservatori, per cui cambiare quel che s’era imparato dai padri e dai nonni dei nonni “non si può né si deve”. Fare dei formaggi diversi, a pasta molle e dolci, non era tra l’altro nelle capacità e nei saperi dei nostri casari. Daltra parte, aggiunse Cesaraccio, il nostro pecorino, così saporito e ben salato è riconosciuto come il campione del mondo della sua categoria.

L’ambasciatrice Luce sorrise e ribatté, con la grazia di chi era stata un’affermata giornalista di costume da premio Pulitzer, che di certo quei casari non illuminavano più le loro notti con le candele di cera, così come era d’uso fra i loro padri e nonni: «Perché allora – obiettò – continuano a produrre del formaggio da 6 dollari il chilo per un mercato che invece ne richiede un tipo differente, più nuovo e gradevole, che è disposto a pagare  18 dollari? A me pare un nonsense».

Questo racconto, al pari delle favole di Esopo, può avere una morale. Lascio però al lettore il compito di trarla. E di decidere se farne una fonte di insegnamento o di rammarico.

Paolo Fadda

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