Non è ancora ben chiaro se Pietro Ghiani-Mameli (1842-1923) debba essere ricordato nell’Isola come un abile banchiere o un dissennato bancarottiere. Eccone quindi la storia. Nato in una famiglia altoborghese, dotato di notevole intraprendenza e di forte amor patrio, fu garibaldino e deputato per quattro legislature, oltre che un fervente promotore del progresso isolano. Infatti, proprio negli anni fra il 1870 e la fine di quel secolo, diverrà, neppure trentenne, il padre-padrone di quella banca da tutti chiamata “Ghiani-Mameli”, anche se la denominazione ufficiale era “Credito Agricolo e Industriale Sardo”.
In pochi anni la porterà ad essere il dominus dei maggiori “affari” dell’Isola, grazie a una raccolta di risparmio di oltre otto milioni di lire, mentre i suoi “buoni agrari” venivano accettati ovunque come denaro sonante. A suo giudizio, il credito bancario doveva essere il concime giusto per far fiorire quel progresso di cui s’aveva grande bisogno. E di denaro a credito ne sparse molto, forse con più spericolatezza che prudenza, a detta dei suoi critici. D’altra parte sulle sue fortune di banchiere di successo si favoleggiava (e anche si sparlava), tanto che fra il popolino girava voce che fosse un redivivo Re Mida, abile nel tramutare in oro anche lo sterco che toccava. Comunque, per quel che se ne diceva, dei “veri” Re aveva anche l’aspetto, il portamento e il fascino, uniti all’ostentazione della ricchezza e del potere. Sposato con la contessa Clara Cao di San Marco, s’era costruito una grande villa in cima a Monte Claro, ai margini della campagna vitata di Calamattia, dove si diceva che organizzasse delle feste regali: le malelingue raccontavano che amava presentarsi agli ospiti in vesti da sultano e la moglie da odalisca, ricca più di gioielli che di indumenti, come una vera regina, in modo “da sbalordire gli ingenui e propagare così la fama delle sue leggendarie ricchezze”. D’altra parte era ben vero che le sue ambizioni non avevano limiti, e che anche l’Isola gli andasse stretta per la sua “escalation” di banchiere d’affari. Così si sentì attratto dalle ricchezze piombifere della Tunisia, tanto da acquistarvi una miniera grazie alle indicazioni ricevute da Giorgio Asproni jr e Giuseppe Melis, due che se ne intendevano parecchio. Ma proprio in quella sponda d’Africa la sua belle histoire di successi, si tramutò in una triste fin dramatique, come accade nei migliori feuilleton.
Per cause diverse, alcune delle quali ben al di fuori delle sue responsabilità oggettive, come la virata del Bey di Tunisi verso la Francia, provocata da quel provincialismo economico che intristiva l’Italietta d’allora. Così la banca Ghiani-Mameli si trovò in affanno, fortemente esposta per sostenere la sfortunata avventura tunisina. Erano i primi di febbraio del 1887. Fu allora che sull’Avvenire di Sardegna si poté leggere che «voci infondate, e non certo disinteressate, hanno fatto correre ieri ed oggi alle casse d’una banca cittadina i portatori dei buoni agrari per il cambio, così da costringerla a chiudere gli sportelli». Per più settimane fu tutto un susseguirsi di voci, con il timore, sempre più incombente, d’un drammatico crack. E proprio fallimento fu, con l’accusa infamante di bancarotta per il Ghiani-Mameli: così nella notte del 1° di marzo volle presentarsi spontaneamente al carcere di Buoncammino a Cagliari, per evitare l’onta del pubblico arresto. Subirà diversi processi, seguiti da dure condanne per una decina d’anni di carcere, ma poi, nel giudizio in Corte d’Assise a Genova, verrà assolto. Con una sentenza contenente giudizi pesantissimi sul curatore fallimentare, reo d’avere svenduto l’attivo della banca «con dissennata ed affrettata attività», per favorire interessi altrui. Da qui quei dubbi e quei giudizi contrapposti di cui s’è detto: di certo ebbe delle chiare responsabilità per essere stato più cicala che formica, ma è indubbio che fu vittima delle acide invidie e delle calunnie di chi volle mettere fine al suo smisurato potere “politico” e alle sue leggendarie ricchezze.
Paolo Fadda