“Il lavoro, sia quello che manca che quello a cui si ambisce, rappresenta il grande motore dei movimenti territoriali” (M. Colucci e S. Gallo, Introduzione a L’arte di spostarsi, Donzelli, 2014). Si va dove c’è il lavoro, spesso anche solo dove si spera di trovarlo. Spostarsi dalla propria città o dalla propria regione non è solo un’opzione, è diventato un imperativo morale e sociale: la “voglia di lavorare” si misura prima di tutto dalla voglia di trovarlo, un lavoro. Bisogna dimostrare di essere disposti e disposte a tutto, pur di lavorare, compreso andare altrove, andare ovunque. Altrimenti la disoccupazione è volontaria e i senza lavoro sono considerati choosy più che disoccupati. Anche quando i costi diretti e indiretti (individuali e familiari) per raggiungere un posto di lavoro superano quasi la retribuzione percepita (o pattuita), si ritiene comunque più utile accettare quel lavoro che restare a casa “senza fare niente”. A ben vedere, ciò che resta dell’ideologia del lavoro, che ha sorretto lo sviluppo del capitalismo fino agli anni Settanta, non è poco, forse è perfino troppo nell’epoca della fine della centralità del lavoro.
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