Le persone in cerca di occupazione in Italia hanno superato da tempo i 3 milioni e in Sardegna sono ormai stabilmente più di 100mila. Nel resto del mondo li chiamano disoccupati (unemployed), perché è la mancanza di un lavoro (perduto o mai trovato) che connota la loro condizione, mentre in Italia – unico caso al mondo – li definiamo sulla base dell’attività di ricerca del lavoro e li chiamiamo appunto persone in cerca di occupazione. Se consideriamo tutti coloro a cui manca il lavoro e che sono disponibili a lavorare, a prescindere dal fatto che lo cerchino più o meno attivamente, le cifre della disoccupazione raddoppiano e arrivano a 6 milioni di persone a livello nazionale e oltre 200mila a livello regionale. A questi bisognerebbe aggiungere anche coloro che hanno un lavoro ‘da poco’ (poche ore, poche tutele, poco reddito) e aspirano legittimamente ad averne uno decente, così arriveremmo a cifre ancora più drammatiche. Insomma, manca una quantità enorme di lavoro e la cosa paradossale è che c’è proprio una quantità enorme di lavoro da fare, anche se non è richiesto dal mercato.
Gli economisti dicono che sono le imprese a creare il lavoro. Sostengono che devono esserci ragioni di mercato perché si creino posti di lavoro: una merce o un servizio vengono prodotti solo se possono essere venduti e comprati ad un prezzo che remuneri il capitale investito, altrimenti non c’è convenienza a produrli. Non è esattamente così, le convenienze non sono solo economiche ma anche sociali. Ci sono attività e servizi che lo Stato ha (o dovrebbe avere) interesse a produrre per il bene collettivo e per rendere effettivi i diritti costituzionali, a prescindere dalle ragioni di mercato. È infatti datore di lavoro di 3 milioni e mezzo circa di dipendenti pubblici (cui si aggiungono centinaia di migliaia di precari) che garantiscono servizi fondamentali per il Paese, dalla sanità all’istruzione, dalla sicurezza alla giustizia.
Lo Stato svolge anche un ruolo indiretto nella creazione di occupazione. Alimenta il lavoro privato attraverso il sistema degli accreditamenti (sanità, formazione professionale, servizi sociali), le parificazioni dei titoli di studio (scuole e università), le esternalizzazioni di servizi. Non è vero quindi che il mercato fa da sé, il mercato utilizza risorse pubbliche ingenti e beneficia di regolazioni favorevoli da parte dello Stato (che oltre ad offrire sgravi e contributi, permette di inquinare, di sfruttare i lavoratori con voucher e tirocini, di evadere le tasse, di licenziare anche senza giustificato motivo, di discriminare le donne in maternità). L’interesse pubblico ha spesso abdicato in favore dell’interesse privato, ed è per questo che la qualità dell’occupazione è gravemente deteriorata e c’è una quantità enorme di lavoro da fare pur essendoci milioni di persone senza lavoro.
Basta guardarsi intorno per immaginare tutto il lavoro che serve, lavoro utile, prezioso, necessario. Lavoro manuale e intellettuale, per ogni tipo di competenza e vocazione. Contrastare il grave declino di un Paese ricco di beni culturali come nessun altro al mondo, molti dei quali in grave stato di abbandono e incuria o di limitata accessibilità; garantire buone condizioni di vita a una popolazione che invecchia più velocemente di altre; innalzare il livello di istruzione generale che è molto basso rispetto agli altri paesi avanzati; ridurre la profonda frattura tra nord e sud e le gravissime disuguaglianze di risorse e opportunità; contrastare la povertà e non semplicemente far sopravvivere i poveri lasciandoli poveri; sottrarre manovalanza e aspettative di lavoro alla criminalità organizzata; recuperare una qualità ambientale compatibile con la sicurezza e la salute dei cittadini: tutto questo è necessario nell’interesse pubblico, anche se non lo richiede il mercato, e corrisponde a una quantità enorme di lavoro da fare. Se l’evasione fiscale si aggira sui 250 miliardi di euro all’anno, vuol dire che ci sono risorse sufficienti a finanziare un’occupazione per tutti.
Lilli Pruna