Mentre scriviamo le più autorevoli guide dei vini italiani sono in stampa e, nel frattempo, sul web iniziano a comparire le classifiche sulle migliori etichette della penisola. La critica enologica sta riconoscendo alla Sardegna un ruolo fondamentale nello scacchiere vitivinicolo nazionale di qualità. Ma cosa s’intende per vino di qualità nel 2017? Sicuramente non solo produrre dei vini “buoni” per i nostri sensi. Un vino di qualità deve trasmettere in maniera chiara il territorio da cui proviene, il suo microclima, il suolo in cui vengono coltivate le uve; deve poi valorizzare le peculiarità dei vitigni da cui è ottenuto; deve, infine, essere testimone del lavoro dell’uomo, non inteso come quello del singolo produttore ma di tutti i compiti (in vigna e in cantina) comuni a i tanti viticoltori che formano le comunità del vino, che si confrontano e che tramandano alle generazioni futuro le chiavi per una produzione che in quel determinato luogo ha radici antiche. La Sardegna questo lo sta facendo in maniera chiara e le guide, se sono lette nella loro interezza, al di là di premi e classifiche, lo dicono chiaramente. In più tracciano i confini di una regione dove convivono – e producono etichette prestigiose – grandi cantine cooperative, così come piccole produzioni artigiane, storiche famiglie del vino che oramai hanno realtà avviate da decenni, così come cantine appena nate. È bene che la maggior parte di queste produzioni sia nota in Sardegna, ma è ancora più importante che varchino i mari in modo da poterle trovare in un wine bar di New York o in un ristorante di Tokio. Per far questo c’è bisogno che ci si unisca al di là della grandezza delle aziende: il vino è ambasciatore di territorio e non importa che quel determinato vino sia frutto di una realtà che ne imbottiglia poche migliaia o milioni di pezzi. E se la strada della qualità l’abbiamo percorsa a piccoli passi, ora dobbiamo accelerare in questo nuovo tracciato: il mercato globale potrebbe non aspettarci.