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Santi, balene e marinai. Pietro Sedda e l’arte del tatuaggio

Pietro Sedda è chino sul braccio di un ragazzo vestito di nero, barba corta e curata, t-shirt e berretto. Nella sala dove tatua non si può entrare. L’attesa si consuma intorno a un tavolo dove sono sistemati magazine e libri d’arte e si viene bombardati da immagini, colori e forme mentre la musica di sottofondo, soundscapes molto rilassati, ha un contrappunto nel ronzio martellante della macchinetta per tatuare. Lo studio è la negazione di qualsiasi idea di minimalismo. Straborda letteralmente di cose. La prima che si nota è il mezzo busto di un manichino d’epoca – baffi curati e capelli impomatati, pettinati con la riga a sinistra – “tatuato” dalla mano inconfondibile di Sedda. Quadri e illustrazioni pendono dalle pareti colorate di un blu petrolio che richiama il colore dell’inchiostro sottopelle. Il lampadario è una polena di legno – decorazione che fino a metà Ottocento si trovava sulla prua delle navi – appesa al soffitto grazie a una corda marinaresca. C’è anche una statua di Sant’Antonio da Padova, che – si dice – protegge i naufraghi ed è in grado di compiere tredici miracoli al giorno. “The Saint Mariner” – così Sedda ha voluto chiamare il suo atelier milanese – è un po’ galleria d’arte, un po’ nido casalingo, un po’ santuario laico dove vale tutto e il suo contrario. Diavoli e santi. Icone sacre e pop. Balene che nuotano nell’aria e statuette religiose indiane. Sincretismo, storie di mare e volti enigmatici emersi da un passato remoto rendono questo spazio decisamente unico rispetto ai “normali” studi di tatuaggi.

Quando il ronzio della macchinetta si interrompe, Sedda si presenta. L’aspetto è burbero, i modi cordiali, il parlare diretto: «Un’intervista approfondita? Ma mica ho così tante cose interessanti da dire». Non si svela troppo: è disponibile, ma rimane sulle sue. Con questa immagine ci gioca un po’: quella di un artista che nega di esserlo. «Io non sono l’architetto, sono il muratore», dice. Sembra il vezzo di chi prende le distanze dal mito che gli è stato cucito addosso, ma lui sembra crederci davvero. Esalta la superficialità («basta con tutta questa gravità da filosofi», protesta a un certo punto) e si annoia davanti ai tentativi di individuare significati profondi nelle sue opere. «Sono arrivato al tatuaggio per caso e sono cresciuto come autodidatta», dice. Ed è così che nel corso degli anni è diventato quello che è. Una delle star internazionali del tattoo, considerato all’unanimità uno degli artisti più significativi nel campo dell’arte disegnata sulla pelle.

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Pietro Sedda, classe ’69, è nato a Cagliari da genitori barbaricini e si è trasferito a Oristano quando era ancora un bambino. Delle origini conserva un legame fortissimo con il mare, che dice di amare da una rispettosa distanza: «Preferisco osservarlo piuttosto che viverlo». E forse anche l’amore per il nero, come è «nero tra virgolette l’animo dell’entroterra». Studia arte a Oristano, poi si trasferisce a Milano per studiare scenografia all’Istituto di Belle Arti di Brera. Inizia a girare il mondo – India e Stati Uniti due tappe fondamentali – e, nel 1998, torna a Oristano, dove apre una bottega artigiana. Si chiamava Officina Alzheimer e lì produceva oggetti con materiali di riciclo, «con materiali insomma che avessero una memoria, per crearne una nuova». Inizia un percorso artistico, un po’ situazionista, col nome d’arte pasoliniano di Petrolio: «Mi vestivo completamente di nero – racconta – e parassitavo le mostre altrui. Facevo delle incursioni rapide, portavo i miei piccoli quadretti e sparivo. Ma con l’arte non riuscivo a sostenermi economicamente».

Fu anche la necessità di sbarcare il lunario a farlo avvicinare al tatuaggio. Alcuni amici gli prestano i soldi per comprarsi l’attrezzatura e decide di “provarla” su un’amica, nel periodo in cui è sotto le armi per il servizio di leva. Inizia a esercitarsi su se stesso, tatuandosi («devastandomi») le gambe. «All’inizio disegnavo di tutto. Avevo una forte antipatia per i ragazzi che si appiccicano al tatuaggio e dopo un anno pretendono di avere uno stile. Quello arriva dopo almeno dieci anni di lavoro. Poi c’è stato un momento in cui ho avuto bisogno di un confronto, di crescere e di studiare. Per tre anni ho vissuto a Londra: è stata una gavetta fondamentale. Sono tornato in Italia nel 2006: per due anni a Urbino e poi di nuovo Milano, dove nel 2010 ho aperto lo studio». The Saint Mariner è in una zona centrale della città, praticamente dietro Piazza della Repubblica. Si trova vicino sia a Porta Nuova – polo dell’innovazione milanese – sia a Corso Buenos Aires e a Porta Venezia. Una zona melting pot di culture, ricchissima di locali e attività con persone provenienti da tutto il mondo. È qui che Sedda ha “casa” ormai da otto anni.

Le sue opere sono tutte pezzi unici. Ogni tatuaggio è progettato per il singolo cliente, con cui Sedda stipula un patto implicito. «Chi viene da me sa che lavoro in un determinato modo. Quando un cliente inizia a dirmi esattamente quello che vuole, in modo dettagliato e preciso, gli chiedo: “Perché sei venuto da me, allora?” Se sono solo un esecutore, non ho libertà di scelta. Ci deve essere un innamoramento tra tatuatore e cliente. Amore e fiducia iniziale. Altrimenti non vale la pena di toccare la sua pelle e odorare il suo sangue». Insomma, chi si tatua da Sedda non deve stabilire condizioni. Il patto di fiducia si fonda sul fatto che il cliente ha scelto Sedda proprio perché sa che il suo tatuaggio sarà davvero “unico” e che il risultato finale lo sorprenderà. Non c’è, di conseguenza, un catalogo di disegni pronti tra cui scegliere, ma solo uno spunto iniziale, un desiderio, che Sedda raccoglie e fa suo, rielaborandolo alla luce del suo stile, della sua impronta, dei motivi ricorrenti delle sue opere.

I motivi, appunto. Ci sono dei visi che raccontano storie. Letteralmente: i volti – li diremmo “antichi” – diventano il contorno di velieri che affrontano mari in tempesta, di balene in lotta con calamari giganti o che sbucano dalle onde lambendo le pareti di imbarcazioni solitarie. Marinai il cui volto è il bacio appassionato di due amanti.Spesso quei visi-quinte teatrali conservano dettagli “umani”: ad esempio un occhio, labbra e baffi. Un occhio malinconico circondato da un cielo stellato. Una barba lunga da cui spunta un faro che prova a indicare la rotta, tra pioggia, fulmini e nuvole. Altre volte Sedda inserisce temi religiosi, in una fusione sincretista di Oriente e Occidente, o geometrie astratte, motivi floreali, paesaggi e architetture. Il taglio è profondamente riconoscibile, i temi anche. Le motivazioni però rimangono ostinatamente in superficie, o meglio: per Sedda il valore di un’opera è essenzialmente estetico. Sta a chi “porta” un suo tatuaggio o a chi lo osserva dall’esterno trovare dei significati ulteriori. «Io mi considero un artigiano. L’arte e l’artista presuppongono degli intenti filosofici che io non ho. Mi si attribuisce il merito di aver reso il tatuaggio “arte”, ma per me non è molto diverso da una bella ceramica, un intaglio prezioso. Prodotti artigianali, insomma. L’arte oggi propone come manufatto il nulla. Il fare è diventato una cosa preziosissima. Preferisco che il mio operato si avvicini di più a quello dell’artigiano». Il nero è diventato nell’ultimo periodo il colore dominante dei suoi lavori. Anche il suo secondo libro, uscito per Logos, lo omaggia esplicitamente: “Black novels for lovers”. «Ho lavorato tanti anni con i colori. Usarli a volte sembra un modo per dimostrare di essere veramente capaci. Non mi interessa convincere di essere un virtuoso. Ho deciso di abbracciare il nero. Ha una sola faccia, ti guarda dritto, è antipatico, sincero, non sbiadisce ed è molto profondo».

In questi anni la figura di Sedda ha valicato i confini del mondo del tatuaggio, dell’illustrazione e dell’arte con collaborazioni nel campo del design, della moda e perfino dei motori e dei drink. Nel 2014 ha tatuato nove esemplari della celebre sedia Grand Prix – realizzata nel 1957 da Arne Jacobsen – in occasione del suo rilancio deciso dal brand danese Fritz Hansens. Nel 2016 lo stilista algherese Antonio Marras, nel suo spazio milanese (Nonostantemarras), ha realizzato la performance “Mare, mare…” durante la quale i tatuaggi di Sedda sono stati proiettati sulla schiena di alcuni modelli. Quest’anno l’artista ha “tatuato” cinque esemplari di X2, il nuovo Suv di casa Bmw: cinque pezzi unici – ribattezzati X2 Rebel – venduti online a febbraio solo sul sito dedicato alla vettura. Infine ha collaborato di recente anche con Coca-Cola, che ha lanciato in Italia la nuova gamma di toniche Royal Bliss: Sedda è stato chiamato a svolgere il ruolo di creative master e ha inventato un cocktail.

L’artista ha lanciato di recente un suo marchio di abbigliamento, grazie al quale il suo immaginario estetico si riversa su felpe e t-shirt. Si chiama Saint Mariner, come il suo studio, ed è stato presentato quest’anno a Milano per la collezione primavera-estate 2019. La sua prima linea si intitola Caronte e comprende sedici magliette e otto felpe, ognuna delle quali reca impresso un disegno di Sedda e il suo stile inconfondibile. L’artista cagliaritano ha pubblicato anche tre libri, usciti tutti per l’editore Logos. Il primo – ormai esaurito – si intitola “Santi, marinai e balene… e disastri” ed è una monografia d’artista che alterna le foto dei tatuaggi a illustrazioni e acquerelli. “Black novels for lovers” è uscito nel 2016 e mantiene lo stesso impianto. L’anno scorso invece ha pubblicato un volume di sole illustrazioni intitolato “Neroblue”. Una curiosità: una volta esauriti i libri non verranno più ristampati. Perché, dice Sedda,«Il mio è un mondo che cambia ogni giorno, come cambiano le mie storie».

Andrea Tramonte

(Questo articolo è uscito originariamente nel quinto numero di Sardinia Post Magazine. Il ritratto di Pietro Sedda è di Chiara Giannoni)