Se vuoi un Carnevale che non ce n’è un altro su tutta la terra – scrive Salvatore Cambosu in Miele amaro – vattene a Mamoiada che lo inaugura il giorno di Sant’Antonio: vedrai l’armento con maschere di legno, l’armento muto e prigioniero, i vecchi vinti, i giovani vincitori: un Carnevale triste, un Carnevale delle ceneri, storia nostra d’ogni giorno, gioia condita con un po’ di fiele e aceto, miele amaro». Una cerimonia solenne dalle origini antichissime quella di Mamoiada, una “processione danzata” come la definì l’etnologo Raffaello Marchi, autore di un film e di un saggio sull’argomento, che per primo negli anni Cinquanta osservò e studiò da vicino il carnevale mamoiadino con le sue terribili maschere dei Mamuthones e Issohadores, maschere antropomorfe protagoniste di un rito antico il cui significato è andato perduto anche nella tenace memoria della cultura orale barbaricina.
“Est anticoriu”, dicono ancora oggi i sardi delle cose il cui ricordo si è perduto nell’oscurità dei tempi. Vale anche per il carnevale di Mamoiada, simbolo del carnevale isolano, per certi versi diverso da tutti gli altri. Un carnevale triste, quasi un anticarnevale, un culto misterico penetrato a fondo nell’anima degli abitanti e gelosamente custodito.
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