La Sardegna di oggi per la Memoria di domani
 

«Mio fratello era come ostaggio dell’Aias»

«Nella lapide comprata da noi, almeno il nome di mio fratello è giusto: Gianfranco, tutto attaccato»: parla veloce Maurizio Onnis, forte accento francese da storico emigrato in Svizzera, cadenza campidanese che spunta prepotente tra un ricordo e l’altro. Mescola frammenti di conversazioni, ricordi d’infanzia nella Sardegna degli anni Settanta, le foto-denuncia con i lividi e le ferite aperte e i filmini in cui appaiono i suoi figli abbronzati durante le vacanze: un mix di dettagli spassosi e macabri con al centro quel suo fratello maggiore “handicappato”. Gianfranco “tutto attaccato” nella sua vita c’è sempre stato, erano quasi coetanei. C’è stato fino al 28 marzo del 2014 quando è morto a 48 anni in ospedale, da solo, dopo dodici ore di ricovero. Era un paziente di lungo corso dell’Aias, Associazione italiana assistenza spastici. Una “carriera” durata 29 anni.

Le parole di Maurizio vanno a onde. Di rabbia, quando parla della parte della sua storia familiare che è stata ascoltata da tutta l’Italia quando l’ha raccontata a Chi l’ha visto?; di incredulità, quando racconta la cupa faccenda dei due loculi. Quello a Silanus, il paese dei nonni, dove Gianfranco è stato sepolto; e quello vuoto nel cimitero di Samassi, il paese a 30 chilometri da Cagliari dove viveva la famiglia. È stato comprato nel dicembre del 2002 quando Gianfranco aveva 37 anni e nessuno pensava che potesse morire da un momento all’altro. Tutti, tranne la tutrice che lo seguiva nella struttura Aias di Decimomannu: «Pochi giorni prima di Natale, con i soldi di Gianfranco, ha prima acquistato il loculo, rimasto vuoto, e poi la lapide che lo chiude, sistemata al contrario. Per quello non si è badato a spese. E invece per la fisioterapia di cui aveva estremo bisogno, quei soldi con c’erano mai. E nemmeno per i vestiti, indossava una salopette con le bretelle attaccate con lo scotch… Per me è diventato quasi come un figlio. Era un agnello…». Maurizio Onnis s’interrompe per un attimo, cerca il termine più adatto in italiano: «Era così fedele. Sì, fedele».

Gianfranco nasce sano, un bambino forte e paffuto fino all’età di sette mesi quando si ammala di una meningite che gli procura danni irreparabili: un ritardo mentale, epilessia e una paraparesi spastica alle gambe che, con il passare degli anni, non sarebbero più rimaste dritte. Ha due anni e mezzo quando, nel settembre del 1967, nasce Maurizio, a Cagliari: «Nella stessa città, a poca distanza: Gianfranco era ancora ricoverato nella clinica Macciotta. Con il mio arrivo, mia madre non poté più dedicarsi al suo primo bimbo, così malato». E in Sardegna non esisteva una struttura adatta: «Lo hanno portato lontano, a Tivoli, nell’istituto Villalba. È lì che ha preso quell’accento romano che gli è poi rimasto. Ci faceva ridere quando diceva ‘Ahò’».

Il Tirreno in quegli anni è una distanza enorme da percorrere per una famiglia numerosa: «Mi ricordo bene quelle visite, la traversata e l’arrivo. Lì stavo stretto stretto a mia madre, avevo paura di tutti quei bambini. Mi terrorizzavano: urlavano, saltavano addosso. Altri, invece, restavano accucciati negli angoli». Di viaggio in viaggio, di festa in festa, passano gli anni: «Da Tivoli è andato via quando era ormai un ragazzino, a tredici anni – nel 1978 – per tornare finalmente in Sardegna, al San Camillo di Sassari, che al tempo era una specie di ospedale psichiatrico».
Nei dieci anni di ricovero nell’istituto sassarese Gianfranco trascorre anche lunghi periodi a casa, in famiglia: settimane d’inverno, per Natale, e d’estate. Un’immagine su tutte è rimasta impressa nella memoria di Maurizio: «Le prime volte a tavola non sapeva mangiare, prendeva tutto con le mani. Per noi fratelli era impressionante, ma gli facevamo vedere come si faceva : “No, così Gianfrà”, e lui ci seguiva». Una presenza ballerina: Gianfranco va e viene. «Non tutti in paese lo conoscevano o sapevano della sua esistenza. Magari la scoprivano per caso, venivano a trovarci e lo vedevano: lui era curioso, affettuoso. Per alcuni fin troppo, si infastidivano, lo capivi dal loro sguardo. Non era veloce come noi, nemmeno complice al cento per cento, ma faceva parte del gruppo, comunque».

Gianfranco adora gli orologi, le costruzioni, le gomme da masticare, la musica a tutto volume, ha delle fissazioni tutte sue. E non sa dire le bugie. «Una volta ci eravamo beccati i pidocchi e mia madre non voleva che si sapesse in giro… Tutti rispettavamo il silenzio con gli estranei, tranne lui, ovviamente. Non scandiva bene le parole ma insisteva con una vicina di casa: “C’ho i pidocchi, guarda! C’ho i pidocchi”, e si toccava i capelli. E la signora a mia madre: “Biscotti? Il bambino vuole biscotti?”, e lui: “Noooo! C’ho i pidocchi, non capisci”. E noi fratelli giù a ridere». La consapevolezza del ritardo mentale ancora non c’era: «Ero troppo piccolo per capire che quel candore era uno dei segni della sua malattia».
Ama le persone, il contatto fisico; ma non i cani e tantomeno i gatti, di cui ha terrore: «Ne avevamo uno in cortile e gli dicevo “Dai, Gianfrà toccalo! Dai…”. E lui si ritraeva: “No, no”. Con quella sua mossa per nascondere il mento che poi ha conservato anche da adulto. D’un tratto gli facevo: ‘Tam’ da dietro le spalle e lui si spaventava un sacco». «Solo quando siamo diventati ragazzini – dice ancora – per me Gianfranco è diventato un malato, un “handicappato”, una persona che aveva bisogno di costante aiuto, in tutto. Non era più solo quel fratello strano che salutava tutti dall’altra parte della strada».

La consapevolezza arriva per gradi, a partire dal trasferimento della famiglia – a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta – in Gallura per il lavoro del padre. Ma è un evento traumatico che chiarisce definitivamente che Gianfranco non può stare solo. «Quando aveva 17 anni, era il 1982, cadde dal balcone del secondo piano del San Camillo. Si è rotto la mandibola, il viso gli è rimasto storto, come si vede anche nelle foto. E gli è rimasta pure quella grande cicatrice bianca in testa. Da quei segni chiunque quando lo guarda capisce che è un ragazzo malato, sì, malato». Ma non un vegetale: «Aveva un suo carattere – dice Maurizio – e un suo senso dell’umorismo, gli piaceva fare degli scherzetti anche a mia madre ».
Gioca come un bambino, anche col ricordo della caduta: «Capitava che fosse seduto su una sedia in cima alle scale, guardava i passanti come si fa nei nostri paesi, e a mia madre diceva: “Mi butto eh, mi butto”. E lei in sardo: “Itte dannu, itte dannu”. E lui ridacchiava sotto i baffi». Ha le sue debolezze e passioni “normali”: «Era vanitoso. Gli piacevano i bei vestiti, essere ben rasato, pulito, ordinato. Non trascurato, come negli ultimi tempi…». E gli piacevano le ragazze. A Bonaria e all’idea di un possibile matrimonio o fidanzamento riservava sempre un sonoro e teatrale gesto dell’ombrello: «Bonaria era un’ospite del San Camillo, era terribile: si dimenava, era aggressiva. A lui non piaceva, ma noi fratelli lo canzonavamo, gli dicevamo “Ti facciamo sposare”». Con la crescita, arrivano trasgressioni da adolescente: «Come le sigarette che gli passavo dietro la schiena e poi subito urlavo: “Babboooo, guarda!”. E lui che impacciato non riusciva quasi a spegnere la cicca, si dimenava».

La fine dell’adolescenza è scandita da nuovi cambiamenti. La famiglia si trasferisce di nuovo da nord a sud dell’Isola: da Cannigione a Samassi. E inizia, è il 1985, la vita targata Aias: «È entrato a Cortoghiana, mi ricordo delle visite veloci… Ma per me era un periodo di scelte radicali, e di partenze. Non volevo seguire i miei genitori a Samassi e così sono rimasto a Cannigione, ho tentato di concludere gli studi per prendere il diploma alberghiero, senza riuscirci, e poi sono partito all’estero, per lavorare. Primissima tappa in Inghilterra, a Londra, dove sono rimasto cinque anni, poi altri cinque in Germania, e infine in Svizzera, a Ginevra».
La storia dei fratelli prosegue, distante ma parallela, a velocità diverse: «Io sono diventato adulto, mi sono sposato e ho preso la gestione di un locale. Poi sono arrivati i figli, e invece Gianfranco continuava ad adorare le costruzioni, gli orologi, le gomme da masticare e gli scarabocchi». Da Cortoghiana, prima residenza Aias, passa a Domusnovas, sempre nel Sulcis, e infine, nel 1997, a Decimomannu, la sua destinazione finale. E i dirigenti hanno strane pretese nei confronti del padre, diventato nel frattempo il tutore: «Gli hanno chiesto di comprare un casco da boxeur, come si dice in italiano? Pugile, sì, pugile. Mio padre non era accondiscendente come mia madre e si oppose con forza. Non voleva che stesse tutto il giorno con quel casco in testa».

Maurizio continua a seguire il fratello dalla Svizzera: «Mi arrivavano ogni sera per telefono i racconti angosciati di mia madre. I problemi che si sommavano, come i tre anni di rette contestate. Tutto complicato dagli incontri burrascosi di mio padre con i vertici della struttura e il Comune. Il 29 novembre del 1999, ricordo bene quella data, gli hanno tolto del tutto la tutela e l’hanno assegnata a una persona terza, la tutrice che poi acquisterà il loculo, Lidia Lecis, allora assessore ai Servizi sociali del Comune». In quell’inverno del 1999 i fatti si susseguono senza sosta: «Il 4 dicembre i carabinieri si sono presentati nella casa di Samassi per prendere il libretto della pensione di Gianfranco e tutti i suoi documenti. Due giorni dopo, il 6 dicembre, nostro padre è morto». I rapporti con l’Aias si complicano ulteriormente e cominciano a farsi strada i sospetti di abusi. «A un certo punto le mie visite in Sardegna si sono trasformate in blitz: entravo nel centro di Decimomannu di nascosto, lasciando moglie e bambini in portineria. Così ho trovato mio fratello in mutande, a volte legato in un letto. Sono diventato una specie di investigatore: ho seguito indizi, segnalazioni ottenute da un giro di informatori – conoscenti, talvolta operatori Aias – ai quali garantivo l’anonimato». I rapporti con la struttura peggiorano con i primi esposti per maltrattamenti, nel 2002: «Spogliavamo Gianfranco per vedere che segni aveva. Lui ci diceva: “Male, male. Qui male”. Come potevano essere quei buchi sulla schiena autolesionismo?». E poi le richieste, a vuoto, di fare le sedute di fisioterapia, mentre le condizioni di salute continuavano a peggiorare: «Alla fine non camminava più e aveva la schiena piegata. Ma mi dicevano che la fisioterapia non era più ‘in regime’, non la si poteva fare. Si è pure fratturato le gambe e non gli sono nemmeno state ingessate. Aveva bisogno della sedia a rotelle, ma non c’era: pur di farlo uscire, la prendevamo a noleggio e la portavamo dalla Svizzera».

La madre, benché ormai molto anziana, resta il punto di riferimento di entrambi i fratelli: «Ma non stava bene, era affaticata e malata. Il 17 settembre del 2004 è morta in un ospizio». Dopo il nuovo lutto, il rapporto con la tutrice diventa ancora più complicato ed è sempre più difficile ottenere l’autorizzazione per le visite: «Ogni volta dovevo chiederle il permesso. E non mi ha mai concesso di portarlo due o tre giorni con me, nella mia casa di Olbia. Ogni volta un sacco di storie… Era come sotto sequestro».

Nel 2006 la speranza, in realtà infondata, di una svolta: «Sono riuscito a diventare pro-tutore, ma le cose non sono cambiate. Il giudice, però, mi ha dato delle speranze per il ricongiungimento, mi ha chiesto di individuare una struttura adatta e io l’ho trovata, a Torino». Intanto, tra nuovi documenti da produrre e nuove udienze, passavano i mesi e gli anni. «Alla fine era difficile sentirlo al telefono, non faceva che chiedermi: “Prendimi, prendimi”. E noi abbiamo fatto di tutto per riuscirci, tante volte ci siamo illusi che dopo qualche mese sarebbe stato assieme a noi. Invece sono passati vent’anni e Gianfranco è morto. Io ancora non sono riuscito ad avere giustizia. Quelli che potrebbero parlare e raccontare per intero la sua storia hanno paura di perdere il posto di lavoro».

Frasi che trasudano amarezza e amore per la Sardegna, il tramite forte, l’origine in comune. Su cui è basato anche quel gergo tra loro, fatto di soprannomi e pronunce forzate, con tratti di sardo: «Lo chiamavo Gattullo, perché aveva i capelli dritti qui in fronte – come su sirbone, il cinghiale, che ha su siddu – in sardo, il pelo dritto, non sa cos’è? E lui si ritraeva offeso ma contento: “Gattullo a me, gattullo a me?!”».

Dolcezza e stizza si mischiano ancora nel ricordo dell’ultimo esame che il loro rapporto ha dovuto superare. «Un vero test certificato necessario per far andare avanti la pratica di “ricongiungimento”: il giudice tutelare – su suggerimento della tutrice – nel 2012 chiese una perizia di un consulente esterno». Il professionista ha dovuto mettere nero su bianco che sì, Gianfranco riconosceva Maurizio, che aveva un rapporto di affetto e che per lui non era un estraneo: «Ho superato anche questo, abbiamo fatto l’esame, pagato da me. Ho ingoiato l’indignazione, per nulla. Perché nell’attesa, poi, è morto».

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