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Il proto-dinosauro di Capo Caccia

La Sardegna è considerata una delle regioni del pianeta col patrimonio paleontologico tra i più ricchi per l’enorme varietà di fossili appartenenti a tutte le ere geologiche che i ricercatori hanno potuto individuare e studiare. Tanti fossili di svariate specie. Tranne una: quei grossi rettili, meglio noti come dinosauri, che popolavano la Terra nel Mesozoico. Era quanto si pensava fino al 2011 quando – fra la Cala del Porticciolo e Cala Viola, a circa tre miglia e mezzo a nord del Capo Caccia di Alghero, proprio nelle falesie rocciose formatesi quando la Sardegna non era ancora nella sua posizione attuale ma rappresentava un pezzetto della Provenza – un gruppo di paleontologi delle Università di Pavia e della Sapienza di Roma ha ritrovato i resti di un gigantesco proto-dinosauro. Si tratta dei primi resti rinvenuti in Italia di un animale di grandi dimensioni appartenente alla famiglia dei caseidi, una specie di rettili erbivori vissuta durante il Permiano Medio, cioè tra 299 e 251 milioni di anni fa.

I resti ritrovati a Cala Viola sono il cranio, lo scheletro vertebrale, le costole e un piede ben conservato di un individuo di Cotylorhynchus; per descriverlo è stato creato un nuovo genere, specificamente chiamato in onore dello scopritore Ausonio Ronchi, Alierasaurus ronchii. Questo enorme animale aveva una testa piccola rispetto al corpo, poteva superare i 6 metri di lunghezza, come un grosso ippopotamo con la testa da lucertolone. Fino alla scoperta algherese, esemplari del genere – ma raramente così grandi – erano stati ritrovati solo negli Stati Uniti d’America, specialmente nel Texas, oltre a un solo esemplare nella Francia meridionale.

Perché questa scoperta paleontologica sarda è così importante? Diciamo perché aggiunge qualche elemento nella conoscenza dei luoghi segreti dell’evoluzione. Può aiutare in un certo senso a individuarne uno dei passaggi segreti. Questi animali sono di fatto i progenitori sia dei dinosauri, sia dei mammiferi. Chiamati anche “arco-sauri” oppure “facce da belva” e tradizionalmente descritti come “rettili simili a mammiferi”, svilupparono una sola apertura nel cranio, nella zona della tempia, dietro a ciascun occhio. Un cranio definito “sinapside” che poi è stato trasmesso ai mammiferi, cioè anche a noi umani.

Quasi tutti i gruppi esistenti nel Permiano, compresi i caseidi, furono colpiti dalla Grande Morìa (the Great Dying) che avvenne poco più di 250 milioni di anni fa, quando la vita rischiò di scomparire. Fu la “madre di tutte le estinzioni di massa”, il più grave evento di estinzione che si sia mai verificato sulla Terra: causò la scomparsa dell’81 per cento delle specie marine, del 70 per cento delle specie di vertebrati terrestri e per la prima volta avvenne la scomparsa di numerose specie di insetti. Il danno alla biodiversità fu così grave che la ripresa della vita sulla Terra fu un processo molto lungo. Certamente durò un tempo molto superiore a quello che occorse 66 milioni di anni fa, nel Cretaceo-Paleocene, dopo l’estinzione dei dinosauri. La scoperta è importante anche dal punto di vista paleobiografico, perché il ritrovamento di un tale animale nell’area del Mediterraneo permette di dimostrare l’esistenza di un collegamento di terra tra il continente nord-americano e quello europeo durante il Permiano Medio, provando l’esistenza di un importante ponte ecologico: una continuità di terra emersa che consentiva la migrazione degli animali.

Daniela Pani

 

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