La Sardegna di oggi per la Memoria di domani
 

Il Tabù infranto

I bronzetti nuragici maschili sono millenari, i selfie e i video di Federica, Simonetta e Zoe recentissimi. E non è un caso. Le launeddas – “strumento popolare sardo a fiato, costituito da tre canne di giunco diseguali, munite di fori”: questa la definizione dei dizionari – per secoli sono rimaste “roba da uomini”: il simbolo maschile per eccellenza, un concetto sintetizzato dall’immagine del suonatore itifallico, bronzetto “erotico” risalente al VI secolo a.C. che rappresenta un personaggio intento a suonare un flauto a tre canne, probabilmente la prima rappresentazione delle launeddas.
Solo da un soffio di tempo, alla fine di un processo cominciato negli anni Ottanta, con l’avvio delle scuole civiche di musica, il tabù ha cominciato a essere incrinato e poi infranto. Eppure per suonare le launeddas, non è necessaria nessuna particolare capacità fisica: non un torace possente, non un fisico da atleta. È solo indispensabile imparare una tecnica: quella del fiato continuo, oltre alla destrezza mentale e fisica del muovere due mani in modo indipendente e asincrono sul leggerissimo strumento e tenere a mente – e ripetere – passaggi musicali lunghi. Il resto è lo stile che fa la differenza tra i suonatori di diverse scuole.

Ma perché, allora, per secoli niente donne? Perché la vita del suonatore-tipo prevedeva sopralluoghi in campagna a caccia di canne con cui costruire le personali launeddas, ma soprattutto spostamenti da un paese all’altro che duravano giorni, in totale solitudine. Al di là delle leggende sul matriarcato in Sardegna, storicamente il ruolo femminile, non leggero né semplice, era quello di badare alla casa e ai figli che allora arrivavano numerosi, nonché ai campi e pure agli animali. E una donna incinta o con neonati al seguito non poteva certo assecondare il calendario delle feste, dormire fuori e tornare con calma dopo la trasferta. I musicisti erano infatti quasi dei pellegrini che giravano, spesso a piedi, l’Isola. Al ruolo illustre e socialmente riconosciuto di suonatore, spesso con un contratto detto di tzaracchia, cioè di servitù, associavano il mestiere di ciabattino e una vita comunque di miseria.

Oggi i tour si fanno tranquillamente pure all’estero con i voli low cost e le suonatrici di launeddas si esibiscono con sempre più frequenza in pubblico. Ancora non sono tantissime – Federica, Simonetta e Zoe in un certo senso, come vedremo, restano delle eccezioni – ma un’ulteriore spinta potrebbe arrivare dal primo percorso accademico dedicato alle launeddas, diventate ufficialmente materia del Conservatorio di Cagliari. Luigi Lai, 87 anni, il Maestro, ha reagito così alla notizia: «È da quando avevo 28 anni che aspettavo questo momento». Andrea Fridolin Bentzon, il giovane antropologo danese che per primo registrò nelle case dei suonatori quella melodia così originale, l’aveva chiesto sessant’anni fa.

Il bando è stato pubblicato a maggio (si comincerà a settembre) e sono arrivate le iscrizioni: 59 in tutto, quattro delle quali compilate da ragazze. Il rapporto è praticamente di uno a quindici, i numeri – insomma – cristallizzano l’eccezione. Ma segnano anche la fine del tabù, gli iscritti non sono infatti novizi.
Una delle quattro (che aspetta con ansia l’inizio del corso), è Federica Lecca, ventisei anni, suonatrice di città, quartiere Su Planu, Cagliari. Conosce da tempo Lai: è il suo Maestro dal 2004. Un selfie che li ritrae insieme è diventato virale su Facebook: mostra Federica, una ragazza dai tratti mediterranei, con l’abito sardo, i gioielli e tutto l’addobbo dell’occasione, che sorride mentre inquadra il maestro e se stessa. Lui, abito di velluto scuro e occhiali ambrati, sorride. L’occasione dell’incontro, la sfilata di Sant’Efisio a Cagliari.
Un traguardo accompagnare il santo nella importantissima sfilata del 1° maggio? «Nella musica, soprattutto in quella delle launeddas – è la risposta di Federica – non si è mai arrivati. Certo la mia simpatia arriva proprio da quella processione che fin da bambina ho seguito con occhi incantati. E sfilare con il Maestro è un orgoglio, non posso nasconderlo. Ho iniziato per caso quando nella mia normalissima scuola statale aprirono un corso di musica. Io ho scelto launeddas, come anche qualche altro compagno di classe. Il mio insegnante allora era Giulio Pala dell’associazione Concordia Launeddas. Poi è arrivata la scuola civica e lì ho incontrato Lai».
Le lezioni di launeddas sono individuali: uno a uno. Per questo il rapporto con il Maestro è così fondamentale: «Un’ora alla settimana fronte a fronte: prima un quarto d’ora o venti minuti di pura concentrazione per i passaggi, poi gli esercizi con pronta correzione. Di certo, come per tutti gli strumenti, ma a maggior ragione per uno strumento così tecnico, il talento da solo non basta: ci vogliono anche dedizione e costanza». A casa soprattutto, ascolto e pratica. Federica si è esercitata unendo i Metallica ai concerti di pastorella (la melodia forse più conosciuta che accompagna le processioni religiose) o Tiziano Ferro a su ballu tundu del Campidano. «Le possibilità di accostamento – spiega – sono infinite. E questo benché nelle launeddas non esista una scala musicale classica, quella che tutti conosciamo, che va dal do al si».
Un solo grande rammarico: «Nel 2011 la scuola è stata chiusa e io non ho avuto la possibilità di andare a proseguire le lezioni raggiungendo Lai nel suo paese, San Vito. Così ho continuato da sola». Di certo non è rimasta ferma. Mentre procedeva nei suoi studi di Medicina e nella sua attività di fotografa, ha fondato un gruppo formato da sole donne, tutte venticinquenni: Myriam Costeri (organetto), Valentina Fais (trunfa) e Martina Chillotti (triangolo). L’ha chiamato Su cuntzertu antigu (Il concerto antico), pur sapendo benissimo che un quartetto femminile di musica sarda è, all’opposto, un’invenzione molto recente. E nel frattempo ha arricchito il suo “arsenale” di launeddas: ne possiede una ventina (ognuna costa circa cento euro) e si rammarica di non essere ancora in grado di costruirle da sola.

Quest’arte, in campo femminile, ha però una pioniera. Si chiama Simonetta Casu, ha 51 anni, vive in una delle capitali delle launeddas, Cabras, paese di stagni (e dunque di canne) a pochi chilometri da Oristano. Il suo maestro è stato speciale, il padre adottivo Giovanni Casu, noto Paui: il suonatore più autorevole ed esperto della scuola di Cabras, protagonista anche di una monografia dell’etnomusicologo milanese Paolo Mercurio. Ha iniziato a seguirlo fin da quando aveva dieci anni: «Sono cresciuta a pane e launeddas, lo seguivo ovunque, anche al bar dagli amici. Ho imparato da lui a costruire gli strumenti. So annodare, far colare la cera e mettere le ance (la sottile linguetta di canna che vibrando produce il suono, ndr)». Sempre insieme: in campagna, nella casa-laboratorio. E, ovviamente, alle feste, ai concerti in Italia e all’estero, nei circoli dei sardi o nei teatri europei. «Viviamo in due case vicine, un appartamento sopra l’altro, entrambi pieni zeppi di launeddas. Ce ne sono ovunque: sui soppalchi, sui tavoli, in soggiorno e in camera. Mio padre, a 84 anni, suona ancora, nonostante una piccola paresi alla bocca. E questo dimostra che la forza della mente può superare qualunque limite fisico». La cosa più difficile? «Coordinare le mani, una fa una cosa, una l’altra. E poi continuare a soffiare. Lui insegnava così, apriva il cortile e suonava. In questo modo è stato non solo il mio maestro ma anche di molti altri bambini. Cominciavano ad ascoltarlo, poi lui capiva quando era il momento di mettergli in mano uno strumento. Non ha mai fatto distinzioni tra maschi e femmine. È stato molto moderno, nonostante abbia vissuto l’infanzia di un pastorello dell’Ottocento. Dormiva in un fosso dentro a un sacco con un cane che faceva da coperta».

Simonetta non è stata la sola allieva di Giovanni Casu: «Mi ricordo di due cugine, Erika e Daniela Loi, ora una è cameriera e l’altra insegnante. Avranno meno di 40 anni. Ma non so se continuino ancora a suonare. Erano talmente “in erba” che a Daniela che mi chiedeva quando avrebbe potuto esibirsi rispondevo: “Quando ti crescono i denti davanti. Pur essendo alle elementari erano già ragazze belle toste». Simonetta era bravissima, ma non era un animale da palcoscenico come suo padre: «Suonavo per le sfilate, ma non concerti sul palco, né rilasciavo interviste, non mi piaceva in generale apparire in video».
Poi lo stop per una polmonite grave e l’arrivo dei tre figli: due maschi e una femmina. Tutti suonatori, ovviamente. «Anche loro hanno imparato come me: soffiando con una cannuccia dentro un bicchiere pieno d’acqua». Ascoltare, soffiare, suonare: questa la trafila. Il suo lavoro non è diventato quello di suonatrice professionista; ma è legato comunque all’abilità delle mani: ago, filo e macchina da cucire. Simonetta fa la sarta. E continua a vivere con gli strumenti della sua infanzia.

Ma nel “pianeta launeddas” c’è anche una donna che ha fatto del suono di questo strumento una professione e che contribuisce a farlo conoscere al mondo: da Berlino all’Azerbaijan. Zoe Pia, 31 anni, originaria di Mogoro, nell’Oristanese, è la rappresentazione plastica di come il tabù donne-launeddas sia stato ormai spazzato via, infranto. Caschetto liscio con frangetta asimmetrica, trucco anni Ottanta – da Jem e le Olograms – è una musicista e compositrice. Dopo il diploma al Conservatorio di Cagliari, si è perfezionata a Rovigo. Il suo filone è quello della musica contemporanea e del live electronics. È partita dal clarinetto solitistico e le launeddas sono arrivate molto molto tempo dopo. «Avevo otto anni quando ho trovato il mio primo clarinetto sotto l’albero di Natale – racconta nella pausa di uno dei concerti attraverso i quali fa conoscere le launeddas e anche il suo ultimo lavoro, Shardana – ma solo quando ho iniziato a studiare composizione in me è nata la curiosità e mi sono avvicinata alle launeddas. Ne ho compreso il valore e l’importanza a partire dall’analisi del repertorio contemporaneo. In più a spingermi verso questa direzione c’era la teoria secondo cui il clarinetto sia una derivazione delle launeddas. Sette anni fa mi sono rivolta a un suonatore-costruttore, Franco Melis di Tuili, che ha confezionato il mio primo strumento, e ho iniziato a esplorare. Sono andata per tentativi. Per capire, innanzitutto, come funzionasse il suono. Come si potesse indirizzare in base alla pressione delle dita, all’accordatura, alle vibrazioni, alla modifica dell’imbocco o delle ance. Alcuni di questi esperimenti li ho poi inseriti nel mio studio di ricerca sulla Sardegna. Registrato in studio e riproposto in contesti in cui il soundscape – l’ambiente acustico naturale – ha un alto valore, anche simbolico, come Sa Domu e s’orcu di Siddi».
Da profana della musica tradizionale sarda, non ha seguito alcun maestro. Zoe va alla ricerca di nuove commistioni, d’altronde i mix tra la musica delle launeddas e altri generi, incluso il jazz, esistono da decenni, il loro suono è stato “scoperto” e reinterpretato in continuazione. Anche da Fabrizio De André in Crêuza de mä, nel 1984. E Zoe continua a sperimentare: «Alcuni non le hanno mai viste, né sentite. Molti si incuriosiscono. E poi ci sono gli esperti, i musicologi e chi studia l’etnomusicologia». Ma Zoe, l’innovatrice, testimonia che le launeddas vanno oltre le materie di studio, oltre il repertorio etno folk, oltre tutte le statistiche e le convenzioni. Pura energia anarchica che ogni volta si rinnova, nonostante una storia millenaria.

 

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