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LA REGIONE-MUSEO / Guida alle meraviglie del muralismo sardo

Un grande museo a cielo aperto con quasi duemila opere esposte. Questa, a cinquant’anni esatti dalla straordinaria intuizione di Pinuccio Sciola, cioè dalla sua idea di trasformare i muri di San Sperate in “tele” da pittura, appare la Sardegna del muralismo. Una varietà straordinaria di generi e di stili. Non solo i murales tradizionali, quelli naturalistici della prima fase, ma anche graffiti, lettering, installazioni, opere di street art decorano le strade, le case e le piazze delle città e dei paesi sardi. Con lavori firmati da bambini, da pittori improvvisati e da professionisti del muralismo e della street art mondiali che, nel loro variegato e coloratissimo insieme, testimoniano la vitalità e la capacità di trasformarsi di questa forma d’arte. Girando per le “sale” del gigantesco museo del muralismo sardo (cioè le città e i paesi dell’Isola) si trovano opere classiche, che raccontano la vita dei pastori e dei contadini, spesso realizzate col sostegno pubblico, e s’incontra anche l’arte illegale – opere realizzate nottetempo senza alcuna autorizzazione – e quella istituzionale, con i grandi murales delle periferie, frutto dei lavori di riqualificazione dei quartieri popolari di Cagliari e di Sassari.

Tutto iniziò a San Sperate, paese agricolo a poco più di dieci chilometri da Cagliari, in occasione della festa del Corpus Domini del 1968 quando Pinuccio Sciola, Raffaele Muscas e Angelo Pilloni imbiancarono i muri delle strade con la calce. Una grande tela candida, su cui loro prima di tutto, poi tanti altri, cominciarono a tracciare disegni e a spargere colori. Fu l’atto fondativo del Paese-Museo, ora conosciuto in tutto il mondo. La rivoluzione non stava tanto, o almeno non solo, nel fattore artistico, quanto nel portare la cultura in un piccolo centro contadino lontano dalla città, dai musei e dalle gallerie, nel coinvolgere tutta la comunità nel progetto, nel ripensare tutto lo spazio abitato in chiave estetica.
Due anni dopo il pittore Aligi Sassu dipinse sulle mura della scuola di piazza Grazia Deledda a Ozieri un “Prometeo” (che per anni sarebbe stato, con i suoi 110 metri quadri, il murale più grande della Sardegna), poi riconvertito in mosaico. Quello stesso anno, il 1970, fu la volta di Orgosolo, dove ancora oggi i muri raccontano la condizione carceraria, l’ingiustizia sociale, l’orgoglio identitario. Qualche anno dopo alcuni esuli cileni in fuga dalla dittatura di Pinochet trovarono nei muri di Villamar il luogo dove proseguire la resistenza.
Poi arrivarono Fonni e Serramanna e gli altri: muri e case dipinti, decorati, abbelliti con scene della vita quotidiana o usati come bacheche per lasciare un messaggio, comunicare un’idea, render pubblica una denuncia politica. In molti paesi le case divennero veicolo delle istanze degli antimilitaristi e degli ambientalisti, delle rivendicazioni dei disoccupati.
Progressivamente il muralismo si diffuse poi in tutta la Sardegna. Attualmente sono 136 i paesi che ospitano almeno un murale, ma è una stima certamente per difetto: molti lavori, infatti, sono sfuggiti ai vari tentativi di censimenti prima di essere cancellati dal tempo.

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