Non dimentica, non perdona. Sa che quell’incubo farà sempre parte della sua vita. Non ha mai provato a rimuoverlo anzi ne ha sempre coltivato la memoria e ora ha deciso di riviverlo in un film.
Sono passati quarant’anni da quel 25 settembre 1978, quando Luca Locci poté riabbracciare i genitori dopo novantatré giorni trascorsi all’addiaccio, coi fucili dei carcerieri puntati addosso e perennemente incappucciato, “ché se ci vedi in faccia poi ti dobbiamo uccidere”, gli spiegavano con premura. L’avevano sequestrato alle 19.30 del 24 giugno a Macomer, cittadina della Sardegna nord occidentale, mentre scorrazzava in bicicletta a pochi passi da casa. Per i banditi la fuga non poteva essere più agevole: quella sera la città era deserta, l’Italia di Bearzot si giocava il terzo posto col Brasile ai Mondiali argentini e tutti erano rintanati in casa. Luca aveva sette anni. Il padre Franco, concessionario Fiat e noto pilota automobilistico, era a Macerata per una gara.
Tornò sull’Isola certo di doversi preparare ad un lungo calvario. E così fu: tre mesi di silenzi, lettere drammatiche dalla prigionia – «Mi facevano scrivere che ero malato, ma erano tutte bugie. Lo facevano per accorciare i tempi delle trattative e chiudere la partita», racconta oggi Locci – e tentativi disperati di agganciare le persone giuste attraverso canali più o meno informali. A fine settembre, a Macomer arriva la foto di Luca con in mano una copia de L’Informatore del lunedì la “prova in vita” dell’ostaggio. L’abbigliamento è quello di tre mesi prima, quando è stato rapito: jeans, polo bianca e polacchine. La foto sblocca le trattative e il 25 settembre, nelle campagne di Lula, poco lontano da Nuoro, la fine dell’incubo: Luca viene consegnato agli emissari e fa ritorno a casa. È stato pagato un riscatto di 300 milioni di lire.
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