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Quei musei pieni di turisti (e precari)

È curioso che in un Paese e una Regione con una disoccupazione così elevata e una base occupazionale modesta rispetto agli altri grandi paesi europei, ci sia una tale disattenzione all’impatto occupazionale degli interventi in tutti gli ambiti delle politiche pubbliche, anche quelli ad alta intensità di lavoro qualificato e specializzato, come i musei e i siti archeologici, che rappresentano il cuore dell’identità e del patrimonio culturale nazionale e regionale. Nei bilanci periodici manca sempre il riferimento all’occupazione e alle condizioni di lavoro. “I dati del 2016 – ha dichiarato il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo – decretano un nuovo record per i musei italiani. I 45,5 milioni di ingressi nei luoghi della cultura statali hanno portato incassi per circa 175 milioni di euro, con un incremento rispettivamente del 4 per cento e del 12 per cento rispetto al 2015, che corrispondono a 1,8 milioni di visitatori in più e a maggiori incassi per 20 milioni di euro” (Mibact, 19 luglio 2017). Nulla si dice sull’occupazione del settore: se e quanto è aumentata in ragione di una crescita dei visitatori e degli incassi – o proprio per consentire questa crescita – e se sono migliorate le condizioni di lavoro, che in Italia sono pessime: i lavoratori e le lavoratrici del settore della cultura sono tra i più precari e sottopagati d’Europa.
Secondo i dati pubblicati dall’Istat alla fine del 2016, il settore museale italiano impiega più di 45 mila operatori (in media uno ogni 2.400 visitatori), che comprendono i dipendenti, i collaboratori esterni e i volontari: questi ultimi sono circa 18mila, cioè il 40 per cento degli addetti del settore! L’occupazione non raggiunge i livelli necessari a un sistema museale moderno perché lo Stato non investe sul lavoro: il 67,5 per cento dei musei ha non più di cinque addetti e solo l’8,9 per cento ne ha più di 10. Se la gestione del patrimonio culturale del Paese è affidata in larga parte ai volontari, non solo si limita la crescita dell’occupazione, ma si priva il sistema delle professionalità migliori. L’ultima indagine Istat sui musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia, mostra con chiarezza gli ampi margini di crescita dell’occupazione, che dovrebbe essere un obiettivo non secondario delle politiche per la cultura. Basta dire che il 35,6 per cento dei musei italiani espone meno della metà delle collezioni detenute; un’ampia quota del vasto patrimonio di beni e collezioni non è consultabile attraverso atti documentali e nemmeno identificata e registrata, solo il 37,4 per cento ha archiviato il proprio patrimonio in formato digitale. Oltre tre quarti degli istituti museali mette a disposizione degli utenti solo supporti informativi tradizionali (opuscoli e materiale informativo stampato), mentre pochissimi utilizzano le nuove tecnologie digitali e multimediali. Assolutamente eccezionali sono i casi in cui il personale o il materiale informativo si esprimono in lingua araba, giapponese o cinese. L’indagine Istat riguarda un patrimonio di quasi 5mila musei e siti culturali, per il 64 per cento di proprietà pubblica (di cui il 43 per cento comunale). Nel Mezzogiorno si concentra oltre la metà delle aree archeologiche, e la Sardegna ha il numero più elevato di tutto il Paese: sono 50, segue la Sicilia con 42. In Sardegna è di proprietà pubblica il 77 per cento dei musei e delle aree museali, quasi il 60 per cento appartiene ai Comuni: è la quota più elevata in Italia e costituisce un elemento di debolezza del sistema museale, perché si tratta di piccoli Comuni. Un ulteriore elemento di debolezza riguarda la gestione dei musei e dei siti: in Sardegna nel 58 per cento dei casi è una gestione indiretta, cioè affidata a privati (di solito associazioni o cooperative), contro una media nazionale inferiore al 24 per cento. Persino la Galleria Comunale d’Arte – Musei civici di Cagliari si avvale dell’affidamento esterno del lavoro, precario e sottopagato benché altamente specializzato.

Lilli Pruna

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