La Sardegna di oggi per la Memoria di domani
 

Il sardo piace perché fa paura

Non so se succede anche a voi, ma io, quando una cosa mi piace, è difficilissimo, per me, dire perché mi piace. Qualche anno fa uno scrittore mio amico, Matteo B. Bianchi, ha pensato di fare un Dizionario affettivo della lingua italiana, e per farlo ha chiesto a 315 scrittori italiani di scegliere la loro parola preferita e di dire perché, quella parola era la loro preferita. Carlo Fruttero, per esempio, ha scelto la parola “Sfiga”, e ha motivato la sua scelta così: «Dalle misere macerie lessicali del ’68 emerge, unico fiore superstite, questo geniale termine di italiano “volgare”. La “s” privativa esalta la cosa negata, massimo bene dunque dell’uomo, origine del mondo. Un vero e proprio omaggio stilnovistico, che il Boccaccio avrebbe sicuramente usato e con ogni probabilità lo stesso Alighieri». Laura Pugno ha scelto la parola “Madre”, e ha scritto: «Scrivo questa voce come un ringraziamento privato. I dizionari restano». E si è spiegata benissimo. Luciano Marrocu, invece, ha scelto la parola “Sì”.

«È sì la parola che preferisco e che uso spesso quando scrivo. Sì, parola chiave dell’assenso, della condivisione, della generosità, dell’amore. Orrenda, invece, l’associazione del sì con assolutamente, il capolaresco assolutamente sì. Un’espressione tra l’altro incongrua, mettendo insieme la granitica certezza di assolutamente – sempre sospetta di prepotenza e intolleranza – con la mitezza che si intuisce dietro il sì». Io, che tendo a dire sempre di no, e che nel sì, più che la mitezza che ci vede Marrocu, tendevo a vedere l’asservimento degli yes men (se si scrive così), io, dicevo, dopo che ho letto questa definizione di Marrocu, il sì ha cambiato mestiere, nella mia testa, e adesso, quando la mamma di mia figlia, per dire, mi chiede qualcosa, con un messaggio o con una mail, io sono così contento, quando posso rispondere, semplicemente: «Sì». Mi piace così tanto, dire di sì, se ci riesco. Insomma, questi tre, e la maggior parte degli altri 311 autori che hanno partecipato al Dizionario affettivo della lingua italiana, si sono spiegati benissimo, quando si è trattato di dire perché avevano scelto la parola che avevano scelto. Io, la parola che ho scelto, era “Moldavia”, e ho scritto così: «A me piace molto la parola Moldavia. Dire perché mi viene difficile, e nel caso della parola Moldavia forse è inutile; mi vien da pensare che tutti, a sentire la parola Moldavia, pensino “Che bella parola”». E basta.

La stessa cosa, ho paura, succederebbe se dovessi dire perché mi piace la Sardegna e perché mi piacciono i sardi. Io, ci sono due posti, al mondo, dove mi sento un po’ a casa mia al di fuori dell’Emilia che è il posto dove son nato, e sono la Russia e la Sardegna. La Russia lo capisco, il perché, ho studiato russo, ma la Sardegna, non ho mica studiato il sardo, eppure la Sardegna e i sardi hanno qualcosa che mi parla quasi nello stesso modo in cui mi hanno parlato Mosca e San Pietroburgo quando ci sono stato. Sulla Russia, qualche anno fa, con un mio amico che si chiama Daniele Benati abbiam scritto un libro su San Pietroburgo che si intitola Baltica 9 (è il nome di una birra) che dentro c’è scritto: «Se chiedeste a degli occidentali che hanno vissuto per un po’ di tempo in un paese dell’ex blocco sovietico in cosa sono diversi gli ex sovietici dagli occidentali, loro forse vi direbbero che diversa è l’importanza che, qua e là, si attribuisce all’idea che gli altri hanno di noi. E se chiedeste loro come mai anche dopo la fine dell’ex impero sovietico continuano a tornare in quei famosi paesi ex sovietici, che cosa c’è di tanto bello, in quei famosi paesi, loro forse vi direbbero che la cosa bella, di quei famosi paesi, è che fanno paura».

Ecco: uno degli incanti della Sardegna, per me, forse è proprio quello, che un po’ fa paura. E i sardi, io ho avuto l’avventura di curare il Repertorio dei matti della città di Cagliari e, dei circa trecento matti che ci sono finiti dentro, il più sardo a me sembra questo qua: «Uno era quello che pisciava nella lettiera del gatto per dimostrargli che era lui il capobranco». E, non saprei spiegarmi il motivo, mi piace moltissimo.

Paolo Nori

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