La Sardegna di oggi per la Memoria di domani
 

L’altro nome del progresso

Qando, all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, se ne incominciò a parlare, anche la rete ferroviaria sarda dovette fare i conti con la sindrome di “a su connottu” (che sostanzialmente vuol dire non allontaniamoci da quello che conosciamo già). Ne furono colpiti i ricchi proprietari terrieri (che non volevano che le loro campagne fossero violate dalle strade ferrate) come i poveri pastori (che sostenevano che lo sferragliare dei convogli favorisse l’aborto delle loro pecore!). Tutto vero, badate, perché di questi appelli se ne trova traccia nei giornali del tempo.
Poco importava che la ferrovia già fosse, in tutt’Europa come nelle lontane Americhe, l’altro nome del progresso e che spiriti sardi illuminati come Giorgio Asproni, Giovanni Battista Tuveri e Giovanni Antonio Sanna si battessero perché anche l’Isola conquistasse, con le strade ferrate, la sua modernità. Annullando così quel ritardo nei confronti delle terre continentali, dove i treni correvano già da una quarantina d’anni: il giovane Regno d’Italia poteva contare, nel 1861, su di una rete di oltre 5mila chilometri.
La stessa locomotiva era ritenuta, nell’immaginario collettivo di tanti sardi, un simbolo infernale, per via di tutto quel fuoco che si portava dentro, da somigliare a quel “mostro strano” che, un secolo dopo, sarebbe stato cantato da Francesco Guccini in uno dei suoi brani più celebri.
Anche per via di questo clima, la costruzione della rete ferroviaria sarda procedette tra grandi difficoltà e continue incertezze. Motivo di continui contrasti politici fra una destra conservatrice ed una sinistra progressista, che fu subito ribattezzata “ferroviaria”. Ci volle infatti una ventina d’anni (1864-1884) perché la “Compagnia Reale per le Ferrovie Sarde” riuscisse a completare i quattrocento e passa chilometri della Dorsale sarda, mentre non ne sarebbero bastati quarantacinque (dal 1885 al 1930) per i circa seicento chilometri delle linee secondarie “a scartamento ridotto” (995 anziché 1435 mm.) e a velocità limitata (40 Km/h), realizzate per meglio adattarsi (e con minor spesa) all’orografia accidentata dell’interno dell’Isola.
Peraltro, a dar retta alle cronache del tempo, anche in Sardegna le costruzioni ferroviarie ebbero il loro codazzo di scandali e di tangenti, con il formarsi di potenti lobby affaristiche. Si sussurrava infatti che Epaminonda Segrè, il “commendatore”, vero nume tutelare della Compagnia delle Ferrovie Reali sarde, fosse un habitué dei gabinetti ministeriali oltre che stesse nelle grazie di donna Amalia, la bella e disinvolta moglie di Agostino Depetris, il capo del governo di quegli anni febbrili. E che solo per i suoi “giri e raggiri” il contributo chilometrico per le linee delle Reali passò da settemila a ben quindicimila lire in poco più di trenta mesi!
Non molto differente, in quanto a nubi affaristiche, fu proprio la costruzione del primo lotto delle ferrovie secondarie, come sistema addizionale di comunicazioni ferroviarie. Così, dopo ripetuti scontri fra un partito “romano” capeggiato dal Segrè e uno della finanza “torinese”, oltre che da mille “ammoine” parlamentari, l’affare nel 1885 prese la strada verso il Po, divenendo preda della finanza sabauda.

 

Nella foto la stazione di Luras (in Gallura) nel 1932

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