«Tore era l’amore della mia vita» sussurra Giuseppina Vincentelli, il volto gentile e il ciuffo ribelle, quasi a nascondere gli occhi azzurri allagati di pianto. Un amore sbocciato in un pomeriggio tiepido d’inverno, poco prima del Natale del ‘73. «Andavo ancora al liceo, e un giorno decidemmo di trovarci tutti insieme a casa di amici: quando lo vidi mi colpì la possenza delle sue braccia muscolose. E la risata allegra, come una cascata. Si era già diplomato all’istituto tecnico, e per guadagnare scaricava i container e i vagoni carichi di merci. Non era alto, ma forte, infaticabile. Vicino a me, biondina dall’aria un po’ esile, sembrava un gigante. Mi fece subito un filo sfrenato». Quasi un anno dopo, d’estate, il primo bacio.
«Dovevo finire di studiare e mi ero presa un po’ di tempo, passammo qualche mese senza più vederci; sono sempre stata una riflessiva, all’apparenza molto tranquilla. Lui invece, correva, correva sempre. Aveva fretta di vivere. Nel frattempo era entrato in fabbrica alla Rumianca, e per il suo carattere generoso e altruista era molto ben voluto. Aveva molti amici e i suoi fratelli lo adoravano ma, al di sopra di tutto, Tore metteva la nostra storia d’amore. Mi faceva sentire preziosa, delicata, indispensabile. Nel gennaio del ‘75 mi regalò l’anello e mi chiese di sposarlo. Ero frastornata, catapultata nel ciclone della sua energia, una carica elettrizzante di cui era difficile fare a meno. ‘Perché dobbiamo aspettare?’ mi diceva. Aveva ragione, non ce n’era motivo: otto mesi dopo andammo a vivere nella nostra prima casa».
«Eravamo compatibili io e Tore. Gli amici sorridevano guardandoci, contagiati dal nostro perenne buonumore. Lui era un entusiasta. Laico e comunista, come me. Ci univa un piacere reciproco per le cose semplici: le giornate di sole al mare, le passeggiate in campagna, gli affetti. Quando nacque Mara, nostra figlia, era come stregato. Cantava, rideva, la baciava continuamente. Passavano lunghe ore insieme, non so nemmeno io cosa si dicessero. Con gli anni si costruirono un rapporto speciale, fatto di giochi e complicità. Si capivano in tutto».
La casa, in particolare, era un suo pallino. «Faceva tutto lui. Dagli impianti elettrici ai mobili: acquistava manuali, si informava, chiedeva agli amici. Poi rielaborava tutto e passava all’azione. Era un autodidatta. Nel fine settimana cucinava divinamente. Gli piaceva arrostire e, complice una buona bottiglia, si finiva sempre a parlare di diritti, giustizia e sindacato».
Il sindacato come un valore, un impegno civile, da condividere assieme ai compagni. «Quando raggiungevano un buon risultato, non era raro festeggiassero tutti insieme organizzando una partita di pallone. Tore andava matto per il calcio, ma quello giocato, non quello dei club e dei grandi giri di denaro; non passava settimana che non ci fosse un torneo, era un gruppo molto affiatato. Come nella Cgil. Fu alla Rumianca che iniziò a partecipare attivamente alle riunioni sindacali. Dopo cinque anni, quando capì che il lavoro in fabbrica si faceva troppo pesante, rischiò la sicurezza del posto fisso ed entrò come tecnico di laboratorio precario all’Istituto minerario di Iglesias. Gli piaceva da morire stare in mezzo ai ragazzi, soprattutto quelli un po’ più grandi, con cui poteva parlare di politica, di futuro, di ideali. Ha continuato a farlo fino a quando ha potuto, anche al Siotto di Cagliari, poco prima della pensione».
Nel luglio del 2004, all’improvviso, la malattia. «La notte si svegliava coi crampi alle gambe. Talmente forti che lo sconquassavano e gli portavano via il respiro. Incominciò a fare qualche indagine, si documentò sulla Rete. Capì che si trattava di Sla, ma io non ci credevo. Nel gennaio del 2005 la diagnosi era confermata. Io crollai, letteralmente. Lui ci mise un mese per metabolizzarla, poi decise di continuare a lottare». «Ho l’onore di essere il prescelto dalla Sla – scrisse – una delle malattie più infide. Dico onore perché nella vita si ha una sola certezza, la morte. Ebbene, se devo morire, prima o poi, considero convivere con la Sla un’esperienza umana ed emotiva, di riscoperta dei valori».
Infondere speranza, lottare contro le ingiustizie, assumere su di sé la responsabilità delle disuguaglianze e riarticolarne i nessi: questa sembra essere stata la costante di Tore Usala, prima e dopo la malattia. Cercare e realizzare proposte costruttive per migliorare la vita dei singoli, sul luogo di lavoro come dal letto di un ospedale. Battersi per i diritti dei più deboli prima, e per quelli dei malati più gravi dopo. Una fiamma che lo animava e che gli aveva fatto accettare con una certa serenità anche la sua condizione di disabilità totale. Lui, il “Guerriero” infaticabile all’improvviso di argilla, diventato una fastidiosa spina nel fianco dei burocrati della Sanità, dei governi regionali e anche di quelli nazionali.
«Una delle sue ultime grandi gioie è stata quattro anni fa la nascita di Vittoria, l’adorata nipotina. Tore era già molto ammalato, le forze lo stavano abbandonando, ma sembrava non curarsene. E, ad esser sincera, nemmeno io. Ci siamo sempre posti l’obiettivo di continuare a vivere nella semplicità e nella serenità che conoscevamo. Non volevamo che la malattia stravolgesse i nostri piccoli riti, il nostro stare bene insieme. Non l’ho mai chiuso in una stanza tirandomi dietro la porta. Il suo letto lo abbiamo sempre voluto al centro della casa, anche in sala o vicino alla sua amata terrazza. Averlo al nostro fianco nelle piccole faccende domestiche, voleva dire non tradirlo. Quando dopo la tracheomizzazione potè utilizzare la voce artificiale del computer, diventava matto perché quell’aggeggio gli dava un’inflessione da continentale. ‘Deu seu sardu’ dettava ad alta voce alla macchina. E scoppiava a ridere».