La Sardegna di oggi per la Memoria di domani
 

Quei tremila posti buttati a mare

Chi conosce la storia della logistica navale non avrà alcun dubbio sull’importanza rivoluzionaria rappresentata dall’introduzione delle navi “Ro-Ro” (Roll-on/Roll-off), attrezzate per imbarcare e sbarcare gli automezzi senza l’uso di gru, ma direttamente nel garage, grazie ad una rampa di accesso. Un’innovazione non molto antica. A introdurla fu, una sessantina di anni fa, l’armatore greco-genovese Spyros Magliveras. A lui va infatti riconosciuto il merito di essere stato l’inventore delle “autostrade del Tirreno” fra la Sardegna ed il Continente con la sua società “Traghetti del Mediterraneo”, le cui navi si chiamavano “Espresso”.

Magliveras di marineria ne sapeva molto, era ben al corrente che i leader di quel settore innovativo nei trasporti marittimi erano soprattutto i norvegesi. Infatti gli armatori Bergesen di Oslo controllavano oltre un quarto dei traffici da e per Suez con una flotta di un’ottantina di navi tra Tankers e Ro-Ro, mentre i connazionali della “Aker ASA” gestivano una decina di cantieri di costruzioni e riparazioni navali un po’ dovunque, tra il Mare del Nord, l’Atlantico e il Mediterraneo. Erano stati proprio quei norvegesi, buoni frequentatori del porto genovese, non solo a dargli l’idea per i suoi “Espressi”, ma soprattutto la convinzione che potevano divenire degli utili partner per i suoi progetti sardi.

Nei ricordi del tempo – bisogna tornare indietro fino alla metà degli anni Sessanta – c’è infatti traccia d’un incontro avvenuto in una celebre trattoria genovese (“La Santa”, in Sottoripa): seduti attorno a un tavolo appartato, tre signori – con Magliveras vi erano i rappresentanti dei due gruppi norvegesi – dopo un “mangiare da Re”, prepararto da uno chef che era stato di Casa Savoia, e dopo una lunga discussione innaffiata da ottima vernaccia del Sinis, presero la decisione di costituire insieme la società “Akers Sardinia”, con la mission di realizzare a Cagliari (scelta per la sua posizione baricentrica nelle rotte mediterranee) tre bacini di carenaggio – uno fisso e due galleggianti – per accogliere navi fino a 50mila tonnellate di stazza. L’investimento totale, pari a una quarantina di miliardi di lire, sarebbe stato coperto per un terzo dai soci, mentre il resto avrebbe potuto godere dei finanziamenti agevolati del Piano di Rinascita. L’occupazione, diretta ed indiretta, veniva stimata in circa tre mila posti di lavoro, mentre le sole navi delle loro flotte avrebbero garantito dei sufficienti ricavi.

Appena la notizia arrivò in Sardegna (il primo a darla fu il sindaco di Cagliari, Giuseppe Brotzu), si scatenarono commenti e critiche, soprattutto critiche: “Se si realizzano nell’Isola dei cantieri navali deve essere l’Iri, cioè lo Stato, a farsene carico, perché non vogliamo colonizzazioni forestiere”, fu l’argomento di una parte maggioritaria di politici e sindacalisti locali, mentre altre campane, suonate da campanili diversi, cominciarono a sostenere che sarebbe stato meglio pensare ad altre localizzazioni, “dato che Cagliari ha già avuto molto”. Insomma, furono più le opposizioni che i consensi. In più, proprio l’Iri, chiamato in causa dai politici sardi, fu il primo a contrastare il progetto norvegese, per via del “disturbo” che avrebbe creato ai suoi cantieri navali di Genova, Napoli e Palermo. Così a Magliveras, che pure aveva fatto il possibile per convincere l’ambiente locale, non restò altro che tornare a Genova con le pive nel sacco. Non poté fare altro che inviare ai suoi soci di Oslo dei telex che suonavano così: “Scusate tanto, non se ne fa più nulla”.

Il governo, per attutire la delusione per quel mancato investimento, decise allora di trasferire nell’Isola un vecchio bacino di carenaggio austroungarico, preda della Grande Guerra, rimasto da sempre inutilizzato in un porto dell’Adriatico. Rimorchiato fino a Cagliari, non fu mai utilizzato e, alla fine, fu demolito. Una parabola triste che chiarisce quali e quanti danni può produrre quell’eredità del “non lasciar fare” e del “non fare”, che si trascina da secoli nella nostra storia come una maledizione.

Paolo Fadda

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